Guidavo un’ape elettrica con un cassone ribaltabile, raccoglievo la carta porta a porta per i negozi del centro storico. Di fianco a me un ragazzo svantaggiato che faceva la sua prima esperienza lavorativa e che io dovevo seguire. Stavo finendo l’università e avevo bisogno di un lavoretto part-time che mi consentisse di mantenermi e continuare gli studi. Non potevo immaginare che quell’esperienza mi avrebbe coinvolto così intensamente.
Era il settembre del 1996, la Formica si era costituita solo da qualche mese (1 marzo 1996). Fu propio Luigia Migliorati, amica di famiglia, a parlarmi della sua nascita. Luigia era una delle promotrici di questo progetto che in quel momento era presidente dell’associazione Madonna della Carità. Nove ragazzi della mia età, per lo più obiettori di coscienza della Caritas Diocesana, si stavano impegnando insieme per qualcosa di importante, scommettendo il proprio futuro con lo scopo di crearsi un lavoro e fare qualcosa di utile per la propria città e per le categorie sociali più deboli. Ne rimasi colpito, chiesi di conoscere Pietro.
Ricordo perfettamente quel giorno, Pietro mi parlò della cooperativa, della forma di autogoverno economico e sociale da parte di lavoratori che perseguono e realizzano comuni aspirazioni ed obiettivi. Dove ogni socio ha il diritto ad esprimere un unico voto in virtù della sua adesione alla società. Una società di persone e non di capitali, persone che aderiscono con lo scopo di lavorare e non di lucrare sui dividendi.
La legge 381 aveva appena 5 anni di vita. Stavano nascendo in quel momento, anche a Rimini, diverse cooperative sociali. Imprese basate sul principio di solidarietà in cui lo stesso concetto di mutualità viene modificato, perché le attività realizzate per soddisfare lo scopo statutario non sono rivolte solo ai soci della cooperativa ma sono rivolte all’intera comunità. Un concetto di “economia civile” che fino a quel momento io avevo sentito solo nelle lezioni del professor Stefano Zamagni e che in quel momento ho visto prendere forma in un idea concreta. Chiesi subito di diventare socio.
E’ così che ho visto La Formica in quel momento ed è così che la vedo ancora adesso, dopo vent’anni: un’impresa dove l’attività economica è riuscita a coniugarsi con quelle virtù civili, che tendono al bene comune più che alla ricerca di soddisfazioni individuali. La sfida è sempre stata questa. Coniugare i due aspetti fondamentali dell’impresa sociale, spesso in contrasto fra loro, cioè mantenere in ’attivo’ il bilancio sociale e contemporaneamente anche quello economico.
In questi anni ho seguito la crescita della cooperativa, dall’interno e dall’esterno, in diversi ruoli e con diverse responsabilità: operatore delle raccolta differenziata, ufficio progetti, qualità, comunicazione, personale, componete del CdA e vicepresidenza. Un esperienza che mi ha fatto crescere tanto dal punto di vista professionale, ma soprattutto umano.
Tanti i ricordi di questi vent’anni, impossibile citarli tutti. Ricordo i primi anni, i progetti finiti male che hanno causato non poche preoccupazioni anche per i bilanci, ma anche quelli con esito positivo, che hanno consolidato e rilanciato l’azienda. Fra questi credo che il passaggio per l’acquisto dei mezzi sia stato uno dei momenti più delicati che ha vissuto la cooperativa. Fino a quel momento venivamo pagati per le ore lavorate, usando i mezzi del committente. Questa nuova fase comportava una vera scelta imprenditoriale, un investimento non banale e una diversa responsabilizzazione da parte dei soci lavoratori, richiamati a ritmi di lavoro più produttivi. Era il momento in cui stavamo ‘diventato grandi’ e non tutti capirono il rischio che correvamo, tanto che ci fu uno screzio fra direzione e base lavorativa. Una tensione difficile da gestire che fu evidenziata anche dalla prima analisi del clima da cui si intensificarono diversi percorsi di comunicazione e informazione come il giornalino L’inFormica.
Sono stati tanti i passaggi delicati e le scelte coraggiose, prese sempre nell’ottica di consolidare ed ampliare i posti di lavoro. Come il trasferimento nel capannone in affitto di Via Norvegia, l’acquisto della attuale sede aziendale, la straordinaria scommessa del consorzio via Portogallo, divenuto oggi il maggiore polo della cooperazione sociale riminese. I difficili momenti dell’incendio doloso subito nella nuova sede appena restaurata. Un fatto che ha scosso le nostre coscienze ma che ha anche fatto esplodere una campagna di solidarietà senza precedenti tra i soci, i lavoratori delle cooperative e tante imprese in tutta l’Emilia Romagna. E ancora, ricordo le tappe della certificazione integrata, che sembravano impossibili da raggiungere, i percorsi formativi per la sicurezza e per la responsabilizzazione del ruolo di socio, come le ‘pre-assemblee’, una straordinaria invenzione formativa nell’ottica del principio di partecipazione, per coinvolgere i soci e condividere con loro concretamente la responsabilità dell’approvazione del bilancio. Il recente ottenimento del Rating di legalità, il giudizio dell’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) sul rispetto della legalità e sul grado di attenzione riposto nella corretta gestione del proprio business. Un riconoscimento che assume un significato davvero importante perché arriva nel momento in cui la cooperazione sociale in Italia è sotto accusa a causa di alcune cooperative sociali che sfruttano questa forma giuridica solo per fare soldi. Ricordo infine il contributo speso in questi anni per costruire una rete delle cooperative sociali in cui si tessono i progetti comuni, una rete di relazioni fatta di imprese, enti pubblici, persone e buone prassi, che ha costruito un vero sistema sociale integrato, che riesce a dare risposte concrete al territorio in cui è inserito.
In questi anni ho scritto e raccontato de La Formica in tanti modi e con tanti articoli, ma la cosa che ancora oggi mi entusiasma di più, sono le storie personali di quei lavoratori che mi chiedono di fare un’intervista. Povertà, immigrazione, disabilità, tossicodipendenza, detenzione, storie complicate di svantaggio sociale e personale che trovano, solamente nel lavoro, l’unica via d’uscita all’emarginazione.
Queste storie sono la reale testimonianza di una responsabilità sociale d’impresa che da vent’anni si poggia sul principio della pari dignità di tutti i soggetti e che, io credo, sia stata capace di costruire a Rimini un progetto imprenditoriale in cui davvero ha preso vita e forma, il senso dell’etica civile.
Emiliano